OGGETTO: Modifica dell’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71 (articolo 10, legge 14 febbraio 2003, n. 30)
L’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, ha novellato l’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, convertito dalla legge 20 marzo 1993, n. 151, stabilendo che “Per le imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, il riconoscimento di benefici normativi e contributivi è subordinato all’integrale rispetto degli accordi e contratti citati, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Viste le dense implicazioni della novella, e data la rilevanza della materia, si ritiene necessario fornire alcune disposizioni interpretative dell’articolo richiamato.
Campo di applicazione dell’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, nuovo testo
La novella di cui all’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, estende il campo di applicazione dell’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, rendendolo norma di applicazione generalizzata a ogni tipologia di incentivo normativo e contributivo, presente o futuro, oltre che precetto di portata assorbente rispetto ad altre disposizioni di contenuto analogo. In questo senso, per i settori dell’artigianato, del commercio e del turismo, la disciplina di cui all’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, assorbe perciò anche l’articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, che pure subordina, ma con formulazione meno stringente e dettagliata, l’applicazione di incentivi e benefici pubblici al rispetto dei contratti collettivi di lavoro della categoria o della zona.
Ciò, in primo luogo, in quanto la nuova formula dell’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, non opera più un riferimento testuale ai benefici di cui agli articoli 1 e 2 del medesimo decreto, in materia di sgravi contributivi per il Mezzogiorno e fiscalizzazione degli oneri sociali che, tra l’altro, non sono più operanti oramai da alcuni anni, in quanto non reiterati dalla legislazione successiva.
Depone poi in questo senso anche la lettera dell’articolo 10 nuovo testo, che subordina, con riferimento alle imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accordi e contratti nazionali, regionali e territoriali o aziendali, là dove sottoscritti, il generico riconoscimento di benefici normativi e contributivi, all’integrale rispetto degli accordi e contratti citati.
Il problema dell’integrale rispetto degli accordi e contratti collettivi ai fini del godimento dei benefici normativi e contributivi.
La locuzione “integrale rispetto degli accordi e contratti” (contenuta nel nuovo testo dell’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, in luogo della originaria espressione “integrale rispetto degli istituti economici e normativi stabiliti dai contratti collettivi di lavoro”) subordina il riconoscimento dei benefici economici e contributivi alla integrale applicazione della sola parte economica e normativa degli accordi e contratti collettivi, e non anche della parte obbligatoria di questi ultimi. Se intesa nel senso di imporre l’applicazione anche della parte obbligatoria del contratto collettivo – tra cui, in particolare, l’obbligo di adesione agli enti bilaterali – la disposizione di cui all’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, risulterebbe infatti in palese contrasto con i principi costituzionali di libertà sindacale, e di libertà sindacale negativa in particolare (di cui all’art. 39 Cost.), oltre che con i principi di diritto comunitario della concorrenza.
Anche anteriormente alla novella di cui all’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, erano insorti alcuni contrasti interpretativi sulla riferibilità del precetto di cui all’articolo 3 del decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, alla sola parte normativa del contratto collettivo, ovvero anche alla c.d. parte obbligatoria, quantomeno in relazione a quelle clausole dei contratti collettivi che impongono l’iscrizione e la relativa contribuzione agli enti bilaterali. La questione in quell’occasione era stata risolta dalla giurisprudenza di Cassazione, la quale aveva ritenuto che le clausole prevedenti l’adesione ai suddetti enti non rientrano né tra gli istituti di parte economica né tra gli istituti di parte normativa della contrattazione collettiva di riferimento, dovendo, invece, considerarsi come clausole contrattuali meramente “obbligatorie”, destinate come tali a impegnare esclusivamente le parti contraenti. Tale interpretazione deve ancora oggi ritenersi vincolante, in quanto, tra le molteplici letture della lettera della legge, deve senza dubbio ritenersi vincolante quella coerente con i principi e le disposizioni costituzionali in materia di libertà sindacale.
Il problema del contratto collettivo applicabile
Anche l’espressione accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, “stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” deve essere letta alla luce dei principi di libertà e pluralismo sindacale contemplati nella Carta Costituzionale. L’accesso ai benefici potrà perciò essere condizionato unicamente alla applicazione di uno dei contratti collettivi che, in un determinato settore produttivo o ambito territoriale, è stato stipulato da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Classificazione delle imprese
Quanto alla individuazione dell’ambito di applicazione soggettiva dei benefici, mentre il decreto legge 22 marzo 1993, n. 71, si riferiva unicamente alla nozione di impresa artigiana, che è espressamente definita dal legislatore, la nuova formulazione estende il raggio di applicazione della norma alle imprese commerciali e del turismo, rispetto alle quali, invece, non è sempre presente una definizione legale di portata generale. La conseguenza è che l’ambito di applicazione dei benefici previsti dalla nuova disciplina potrebbe risultare integralmente rimesso agli accordi e contratti collettivi e, dunque, ad atti di autonomia negoziale privata.
Secondo un costante insegnamento della Cassazione, però, la classificazione delle imprese ai fini previdenziali e assistenziali ovvero ai fini del godimento di incentivi, della fiscalizzazione degli oneri sociali o della ammissione alla cassa integrazione guadagni deve avvenire alla stregua di criteri oggettivi e predeterminati che non lascino spazio a scelte discrezionali o a processi di autodeterminazione normativa: in questi casi, pertanto, per determinare l’ambito di operatività dei benefici concessi alle imprese commerciali e del turismo occorrerà fare riferimento alle disposizioni di cui all’articolo 2195 Cod. Civ. e, comunque, tener conto della natura dell’attività effettivamente svolta dall’impresa.
Naturalmente, l’inquadramento ai fini previdenziali ovvero ai fini del godimento di determinati benefici connessi alla fiscalizzazione degli oneri sociali non può essere ritenuto vincolante per il datore di lavoro, nel senso di imporgli l’applicazione di una contrattazione collettiva corrispondente alla stessa attività considerata ai suddetti fini: l’applicazione dei contratti collettivi, in questa prospettiva, costituisce quindi nient’altro che un onere per il datore di lavoro, al fine di poter fruire dei benefici economici previsti dalla legge.
Prot. 37/0010252
Riconoscimento dei benefici normativi e contributivi, Contratto collettivo di riferimento, integrale rispetto degli accordi e contratti.
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – contributo di assistenza contrattuale.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha presentato istanza d’interpello al fine di conoscere il parere di questa Direzione generale in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 1, comma 1175, L. n. 296/2006, concernente il riconoscimento dei benefici normativi e contributivi.
In particolare, l’istante chiede se il mancato versamento del contributo di assistenza contrattuale da parte di imprese non iscritte alla associazione di categoria firmataria del contratto collettivo di riferimento possa intendersi quale mancata osservanza delle disposizione di cui all’articolo sopra citato e, per l’effetto, configurarsi come motivo ostativo alla concessione dei citati benefici.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale delle Tutela delle Condizioni di Lavoro e delle Relazioni Industriali e dell’Ufficio legislativo, si rappresenta quanto segue
In via preliminare, occorre muovere dalla lettura dell’art. 1, comma 1175, L. n. 296/2006 ai sensi del quale “a decorrere dal 1° luglio 2007, i benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”
Con riferimento al rispetto della contrattazione collettiva, va preliminarmente ricordato che questo Ministero si è espresso già con circ. n. 4/2004, sulla applicazione dell’art. 10 della L. n. 30/2003, laddove si spiega che la locuzione “integrale rispetto degli accordi e contratti”, ivi prevista, “subordina il riconoscimento dei benefici economici e contributivi alla integrale applicazione della sola parte economica e normativa degli accordi e contratti collettivi, e non anche della parte obbligatoria di questi ultimi. Se intesa nel senso di imporre l’applicazione anche della parte obbligatoria del contratto collettivo (…) la disposizione di cui all’articolo 10 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, risulterebbe infatti in palese contrasto con i principi costituzionali di libertà sindacale, e di libertà sindacale negativa in particolare (di cui all’art. 39 Cost.), oltre che con i principi di diritto comunitario della concorrenza”.
Ciò premesso, va evidenziato che il c.d. contributo di assistenza contrattuale consiste in un onere economico talora richiesto da organizzazioni sindacali “per assicurare l’efficienza delle proprie strutture sindacali al servizio dei lavoratori e dei datori di lavoro” (v. art. 40 CCNL Commercio). Il contributo si qualifica pertanto come elemento rientrante nella parte obbligatoria del contratto collettivo e non nella parte economica e normativa, quest’ultima notoriamente volta a disciplinare i rapporti individuali di lavoro (cfr. ad es. Cass. Civ. sez. lavoro, 15 gennaio 2003, n. 530). Da ciò deriva l’assenza di un obbligo di versare tale contributo ai fini ai fini di quanto stabilito dall’art. 1, comma 1175, della L. n. 296/2006.
In definitiva, quindi, in risposta al quesito avanzato, la fruizione dei benefici normativi e contributivi previsti dalle disposizioni di legge non può essere negata all’impresa non iscritta all’associazione firmataria del CCNL che intende applicare, qualora la stessa non abbia provveduto al versamento del contributo di assistenza contrattuale.
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Direzione Generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali
Divisione V Via Fornovo, 8 – 00192 Roma Tel. 06.4683.4068
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